Bentrovati a questo nuovo appuntamento con Sonar, la rubrica di approfondimento di Cube Radio News. Oggi parleremo di moda, ma non come il mondo occidentale è abituato a conoscerla.
Non stiamo parlando di eccessi, di trend o di grandi marchi. Ci siamo forse dimenticati come l’abbigliamento sia una delle più antiche forme d’arte, assieme alla cucina e all’architettura? Di come esso sia espressione di una cultura, di valori e a volte di proteste?
Ogni capo, infatti, racconta una storia che spesso può essere colta universalmente, dato che costituisce il più delle volte un simbolo.
Così, in ogni parte del mondo, si è dato origine a interpretazioni diverse del concetto di moda, con stili, tessuti e accessori diversi che hanno fatto da specchio alla comunità d’appartenenza con i relativi cambiamenti durante le epoche storiche.
Oggi, grazie alla maggiore attenzione verso la sostenibilità, il settore sta vivendo una vera e propria scossa. Il Fast Fashion, ovvero quella branca della moda che si caratterizza per una qualità medio-bassa dei vestiti e per l’economicità di quest’ultimi, costituisce una piaga per i diritti dei lavoratori e per il rispetto del pianeta.
Secondo quanto riporta l’ANSA, “l’utilizzo medio di vestiti e accessori è diminuito del 36% nel periodo 2000 – 2015, con i capi più economici che vengono indossati solo 7 o 8 volte prima di essere scartati”. Ne consegue un inquinamento del pianeta a ritmo continuo.
C’è allora la necessità di ripensare i modelli di produzione e di concezione della moda, magari adottando pratiche tradizionali davvero interessanti come quella del Bark Cloth, una tecnica tessile tipica dell’Uganda. Ricavato dalla corteccia del mutuba, un albero particolare del posto, il tessuto africano viene tradizionalmente indossato nelle cerimonie fin dal 1200. È sostenibile perché biodegradabile, di lunga durata e per la sua lavorazione non si utilizzano sostanze chimiche, secondo quanto si legge in un articolo di Vogue.
Non solo, il continente Africano ci regala anche tecniche di tessitura e trattamento dei materiali che potrebbero essere cruciali nel portare una ventata di novità allo stesso tempo profittevole per il futuro nell’industria della moda, come la tessitura berbera e l’artigianalità delle etnie Masai e Ndebele.
Collaborazioni tra designer e artigiani può dare una nuova voce alle comunità indigene permettendo loro di mostrare i loro mestieri ancestrali ed esprimere la loro identità culturale in tutto il mondo. Perché sostenibilità significa anche questo, dare dignità alle persone e preservare il patrimonio culturale dell’umanità.
Anche in India ci sono sempre più brand che riconoscono l’importanza del fare green. Alcuni impiegano ingredienti naturali nella tintura e purificazione dei tessuti, altri utilizzano telai manuali di ere antiche per ridurre al minimo gli sprechi tipici industriali.
Infine, questa nazione può fornire un’ulteriore risorsa a quelle dedicate alla creazione di tessuti. Si tratta della banana, di cui l’India è il principale produttore al mondo.
Uno progetto esterno dell’Università di scienze applicate di Lucerna ha infatti cercato di sfruttare lo pseudofusto del banano trasformandolo in filo destinato alla tessitura.
In un’intervista a Swissinfo, la responsabile del progetto Tina Moor parla di come “le parti più grezze potrebbero essere usate per produrre fibre, le quali verrebbero filate negli stabilimenti di iuta esistenti e impiegate per realizzare tappeti o tessuti di rivestimento. La parte centrale dello pseudofusto potrebbe invece essere filata dalle famiglie di contadini su telai manuali e utilizzati per produrre tessuti pregiati per il settore dell’abbigliamento.”
Insomma, tutti gli indizi per seguire un percorso di rivoluzione verde della moda ci sono, bisognerebbe soltanto armarsi di dialogo e voglia di condividere sia la propria conoscenza che le proprie risorse.
Il Sonar di oggi termina qui, Agata Borracci per Cube Radio News, a voi studio.